La Seconda guerra mondiale fu una guerra come nessun’altra. Nel corso della sua esistenza, il Terzo Reich investì e consumò tutte le sue riserve morali e fisiche, portando alla sconfitta totale del 1945. A distanza di così tanti anni – nonostante gli scaffali di libri dedicati alle origini, all’andamento e alle atrocità della guerra – ancora non sappiamo per che cosa i tedeschi pensassero di stare combattendo, quali furono le esperienze che attraversarono e come fecero a sopportare la guerra fino all’ultimo giorno. Quando scoppiò, nel settembre del 1939, la guerra in Germania non godeva del minimo favore popolare. Senza però la partecipazione e l’impegno offerti attivamente dal popolo tedesco, non avrebbe potuto andare avanti per quasi sei anni. Che cos’era, dunque, la guerra che i tedeschi pensavano di stare combattendo? In che modo il volgere degli eventi del conflitto – le vittorie del Blitzkrieg, le prime sconfitte sul fronte orientale, il bombardamento subito dalle città tedesche – mutò opinioni e aspettative? E quando fu che i tedeschi si resero conto di stare combattendo una guerra genocida? Attingendo a una messe di testimonianze di prima mano, La guerra tedesca è, da decenni a questa parte, il primo tentativo di capire come il popolo tedesco vivesse la Seconda guerra mondiale. Adottando il punto di vista di coloro che la attraversarono – soldati, insegnanti di scuola e casalinghe; nazisti, cristiani ed ebrei – il racconto storico magistrale che ne emerge getta una luce nuova e inquietante sulle convinzioni, le speranze e le paure di un popolo che intraprese, proseguì e combatté sino alla fine una guerra brutale di conquista e genocidio. ________________________________
Sono trascorsi più di settant’anni dalla fine della Seconda guerra mondiale e – nonostante interi scaffali di libri dedicati alle origini, allo svolgersi e alle atrocità del conflitto – non sappiamo ancora perché i tedeschi combatterono fino all’ultimo giorno per la difesa del Terzo Reich. Neppure i giapponesi combatterono fino alle porte del palazzo imperiale di Tokyo come fecero i tedeschi per la Cancelleria del Reich a Berlino. Che cosa li muoveva realmente? Come potevano far proprio il richiamo alla mobilitazione generale da parte di un regime che, nel 1945, mise in atto la propria «sconfitta totale», investendo e consumando tutte le risorse morali e fisiche della nazione? Il carattere di guerra razziale di quel conflitto, con le atrocità e i genocidi conseguenti, non era, inoltre, – come nel periodo della Guerra fredda si è a lungo sostenuto – un’ignobile macchia delle SS e di un manipolo di nazisti intransigenti. A partire dagli anni Novanta, documentazioni fotografiche e numerosi materiali – come una pagina di diario in cui, il 22 novembre 1943, il capitano August Töpperwien annotava: «Stiamo sterminando non solo gli ebrei che comabattono contro di noi, vogliamo letteralmente sterminare questo popolo in quanto tale!» – hanno abbondantemente messo in discussione la comoda scusa di una Wehrmacht buona a fronte delle cattive SS. La tesi perciò che vuole i tedeschi consapevoli a poco a poco di stare combattendo una guerra mirata al genocidio è difficilmente confutabile. Che impatto, tuttavia, ha avuto sulla gente comune una simile consapevolezza? In che maniera la guerra influì sul loro modo di vedere il genocidio? Il diffuso timore, nell’estate 1943, che la Germania non sarebbe riuscita a sottrarsi alle conseguenze di una spietata guerra razziale, di cui era stata essa stessa fautrice, ha avuto un peso rilevante nella mobilitazione generale dei tedeschi? Opera imponente, frutto di un decennale lavoro su una sterminata massa di materiali – i rapporti delle spie del regime, quelli della censura militare, le raccolte di lettere fra amanti, amici stretti, genitori e figli e coppie sposate – La guerra tedesca intreccia magistralmente gli eventi bellici con le vicende personali del popolo tedesco in guerra, e offre al lettore uno dei più importanti libri sulla Germania nazista che siano mai stati scritti. |
Prefazione Questo libro rappresenta il coronamento di un periodo di poco più di vent’anni durante i quali ho tentato di comprendere l’esperienza di coloro che vissero in Germania e sotto l’occupazione tedesca durante la seconda guerra mondiale. Si tratta, peraltro, di un libro che inizialmente non avevo intenzione di scrivere. Nel 2005 avevo assicurato a me stesso e a chiunque fosse a portata d’orecchio che, avendo appena terminato La guerra dei bambini. Infanzia e vita quotidiana durante il nazismo, non avrei scritto null’altro sui bambini, l’Olocausto o la Germania nazista. Questo libro aveva cominciato a prendere vita come un breve saggio che affrontava la questione di ciò per cui combattevano i tedeschi: era qualcosa che avevo l’impressione fosse necessario dire prima di potermi dedicare ad altro, e iniziò a prendere la forma di qualcosa di più consistente durante un anno sabbatico che passai all’Università libera di Berlino nel 2006-2007. Vi sono alcune chiare continuità fra i due libri, la più evidente delle quali è l’interesse che mi porta a esplorare le dimensioni soggettive della storia sociale, ricorrendo alle testimonianze dell’epoca per riuscire ad avere un’idea di quale fosse il giudizio che le persone davano e quale la comprensione che avevano degli eventi nel momento in cui si stavano svolgendo attorno a loro e prima di sapere quale ne sarebbe stato l’esito finale. Vi sono anche delle chiare differenze. Ne La guerra dei bambini volevo più di ogni altra cosa trattare i bambini come attori sociali in tutto e per tutto; e avevo inoltre intenzione di mettere l’una accanto all’altra le prospettive, fra loro irriducibili, dei bambini che la guerra e le persecuzioni razziali dividevano in vincitori e perdenti. La guerra tedesca presenta un diverso problema: come fare a mettere in luce quali fossero i timori e le speranze della società da cui provenivano i vincitori e gli esecutori materiali, e così facendo comprendere quale giustificazione si dessero i tedeschi per questa guerra. Per focalizzare la questione il mio intento è stato andare, per così dire, in ampiezza e in profondità: in ampiezza utilizzando «macro» istantanee d’opinione, attinte a quanto, delle conversazioni pubbliche, riferivano i rapporti delle spie che stavano in ascolto per conto del regime o della censura militare che prelevava i campioni di lettere dai sacchi della posta; in profondità seguendo un cast selezionato di individui, tratto da un’ampia varietà di contesti, in un arco di tempo considerevole, andando a vedere come speranze e progetti personali risultassero intrecciati con l’esperienza mutevole che la guerra li portava ad avere. In tal modo la voce delle vittime non ha più la stessa rilevanza che aveva ne La guerra dei bambini, ma non è mai del tutto assente: senza il loro punto di vista contrastante non sapremmo quante differenze – e spesso atteggiamento solipsistico – vi fossero nel modo in cui i tedeschi si facevano un’idea della guerra. Uno
degli ingredienti principali di questo libro sono le raccolte di
lettere fra amanti, amici stretti, genitori e figli e coppie sposate.
È un tipo di fonti che è stato utilizzato da molti
storici, ma con esiti spesso diversi. Per esempio, la Bibliothek
für Zeitgeschichte («Biblioteca di storia
contemporanea») di Stoccarda possiede una celebre collezione di
circa venticinquemila lettere messa insieme da Reinhold Sterz.
Purtroppo le lettere sono state catalogate per periodo e non per
autore, cosicché esse forniscono un’istantanea delle
opinioni soggettive in un momento preciso della guerra, senza che sia
possibile verificare quanto strettamente l’autore di una lettera
si attenne a queste opinioni in un dato arco di tempo. Quel che ha
guidato la mia selezione è stato il principio opposto: ho voluto
leggere raccolte di corrispondenza in cui siano conservate lettere di
una parte e dell’altra e che siano andate avanti per almeno
alcuni anni, facendo in tal modo vedere come nel corso della guerra si
svilupparono e modificarono le relazioni personali fra i corrispondenti
(che sono poi il motivo principale per cui ci si scrive). Ciò ci
consente di ricostruire con maggior precisione quale fosse il filtro
personale attraverso cui ogni individuo percepiva i grandi eventi.
È il genere di ricerca che gli storici della prima guerra
mondiale vanno sviluppando dagli anni Novanta, e ho imparato molto su
come si fa da Christa Hämmerle. |
© Nick Stargardt
© Neri Pozza Editore, Vicenza
Nicholas Stargardt "Der deutsche Krieg. Eine Nation unter Waffen 1939-1945" |
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Der Zweite Weltkrieg war ein Krieg wie kein anderer. Das Dritte Reich investierte und verbrauchte während seines Bestehens alle moralischen und physischen Reserven, bis es 1945 zur totalen Niederlage kam. So viele Jahre später - trotz der Regale voller Bücher, die den Ursprüngen, dem Verlauf und den Gräueltaten des Krieges gewidmet sind - wissen wir immer noch nicht, wofür die Deutschen zu kämpfen glaubten, was sie erlebten und wie sie den Krieg bis zum letzten Tag durchhielten. Als er im September 1939 ausbrach, genoss der Krieg in Deutschland nicht die geringste Sympathie in der Bevölkerung. Doch ohne die aktive Beteiligung und das Engagement des deutschen Volkes hätte er nicht fast sechs Jahre andauern können. Was war nun der Krieg, den die Deutschen zu führen glaubten? Wie hat die Entwicklung des Konflikts - die Siege des Blitzkriegs, die ersten Niederlagen an der Ostfront, die Bombardierung der deutschen Städte - die Meinungen und Erwartungen verändert? Und wann wurde den Deutschen klar, dass sie einen völkermörderischen Krieg führten? Auf der Grundlage einer Fülle von Berichten aus erster Hand ist Der deutsche Krieg seit Jahrzehnten der erste Versuch, zu verstehen, wie die deutsche Bevölkerung den Zweiten Weltkrieg erlebt hat. Aus der Sicht derer, die ihn erlebt haben - Soldaten, Lehrer und Hausfrauen, Nazis, Christen und Juden - wirft der meisterhafte historische Bericht ein neues und beunruhigendes Licht auf die Überzeugungen, Hoffnungen und Ängste eines Volkes, das einen brutalen Eroberungs- und Völkermordkrieg führte, fortsetzte und bis zum Ende kämpfte. ________________________________
Mehr als siebzig Jahre sind seit dem Ende des Zweiten Weltkriegs vergangen, und trotz ganzer Bücherregale, die den Ursprüngen, dem Verlauf und den Gräueltaten des Konflikts gewidmet sind, wissen wir immer noch nicht, warum die Deutschen bis zum letzten Tag gekämpft haben, um das Dritte Reich zu verteidigen. Auch die Japaner kämpften nicht bis vor die Tore des kaiserlichen Palastes in Tokio, wie es die Deutschen für die Reichskanzlei in Berlin taten. Was hat sie wirklich bewegt? Wie konnten sie dem Aufruf zur allgemeinen Mobilisierung eines Regimes folgen, das 1945 seine eigene „totale Niederlage“ herbeiführte, indem es alle moralischen und physischen Ressourcen der Nation investierte und aufbrauchte? Der Rassenkriegscharakter dieses Konflikts mit den darauf folgenden Gräueltaten und Völkermorden war im Übrigen nicht - wie in der Zeit des Kalten Krieges lange behauptet - ein abscheulicher Makel der SS und einer Handvoll unnachgiebiger Nazis. Seit den 1990er Jahren haben Fotodokumente und zahlreiche Materialien - wie etwa eine Tagebuchseite, in der Hauptmann August Töpperwien am 22. November 1943 notiert: „Wir vernichten nicht nur die Juden, die gegen uns kämpfen, wir wollen dieses Volk als solches buchstäblich ausrotten!“ - haben die bequeme Ausrede von der guten Wehrmacht gegen die böse SS gründlich in Frage gestellt. Die These, dass sich die Deutschen allmählich bewusst wurden, dass sie einen Krieg mit dem Ziel des Völkermords führten, ist daher schwer zu widerlegen. Doch wie wirkte sich ein solches Bewusstsein auf die Menschen aus? Wie wirkte sich der Krieg auf ihre Einstellung zum Völkermord aus? Spielte die im Sommer 1943 weit verbreitete Furcht, dass Deutschland den Folgen eines rücksichtslosen, von ihm selbst angezettelten Ethnienkrieges nicht entkommen könnte, eine wichtige Rolle bei der allgemeinen Mobilisierung der Deutschen? Ein beeindruckendes Werk, das Ergebnis jahrzehntelanger Arbeit an einer immensen Menge von Material - die Berichte der Spione des Regimes, die der Militärzensur, Sammlungen von Briefen zwischen Liebenden, engen Freunden, Eltern und Kindern sowie Ehepaaren - verwebt meisterhaft die Kriegsereignisse mit den persönlichen Schicksalen des deutschen Volkes im Krieg und bietet dem Leser eines der wichtigsten Bücher über Nazi-Deutschland, das je geschrieben wurde. |
Leutnant der Roten Armee Wladimir Gelfand und seine Berliner Freundin |
Vorwort Dieses
Buch stellt den Höhepunkt eines Zeitraums von etwas mehr als
zwanzig Jahren dar, in denen ich versucht habe, die Erfahrungen
derjenigen zu verstehen, die während des Zweiten Weltkriegs in
Deutschland und unter deutscher Besatzung lebten. Es ist jedoch ein
Buch, das ich ursprünglich nicht zu schreiben beabsichtigt hatte.
Im Jahr 2005 hatte ich mir selbst und jedem, der mir zuhörte,
versichert, dass ich, nachdem ich gerade das Buch Der Krieg der Kinder. Kindheit und Alltag im Nationalsozialismus,
Ich würde nie wieder etwas über Kinder, den Holocaust oder
Nazideutschland schreiben. Dieses Buch hatte als kurzer Aufsatz
begonnen, der sich mit der Frage beschäftigte, wofür die
Deutschen kämpften: Ich hatte das Gefühl, dass es gesagt
werden musste, bevor ich mich etwas anderem widmen konnte, und es
begann während eines Sabbatjahres, das ich 2006-2007 an der Freien
Universität Berlin verbrachte, die Form von etwas Substanziellerem
anzunehmen. Einer
der Hauptbestandteile dieses Buches sind Sammlungen von Briefen
zwischen Liebenden, engen Freunden, Eltern und Kindern sowie Ehepaaren.
Es handelt sich dabei um eine Art von Quellenmaterial, das von vielen
Historikern verwendet wurde, allerdings mit oft unterschiedlichen
Ergebnissen. So besitzt die Bibliothek für Zeitgeschichte in
Stuttgart eine berühmte Sammlung von etwa
fünfundzwanzigtausend Briefen, die von Reinhold Sterz
zusammengestellt wurde. Leider sind die Briefe nach Zeiträumen und
nicht nach Verfassern katalogisiert, so dass sie eine Momentaufnahme
subjektiver Meinungen zu einem bestimmten Zeitpunkt während des
Krieges darstellen, ohne dass überprüft werden kann,
inwieweit sich der Verfasser eines Briefes zu einem bestimmten
Zeitpunkt an diese Meinungen gehalten hat. Ich habe mich bei meiner
Auswahl von dem gegenteiligen Prinzip leiten lassen: Ich wollte
Briefsammlungen lesen, in denen Briefe der einen und der anderen Seite
erhalten sind und die zumindest einige Jahre andauerten, um so zu
zeigen, wie sich die persönlichen Beziehungen zwischen den
Korrespondenten (die ja der Hauptgrund für das gegenseitige
Schreiben sind) im Laufe des Krieges entwickelten und veränderten.
Auf diese Weise lässt sich genauer rekonstruieren, durch welchen
persönlichen Filter jeder Einzelne die wichtigsten Ereignisse
wahrgenommen hat. Dies ist die Art von Forschung, die Historiker des
Ersten Weltkriegs seit den 1990er Jahren entwickelt haben, und ich habe
von Christa Hämmerle viel darüber gelernt, wie man sie
durchführt. |